L’impossibilità di escludere la demografia.
Sono due, più di tutte, le componenti essenziali che determinano il destino del pianeta nella sfida del cambiamento climatico; sono le coordinate cartesiane, indispensabili per capire il presente e scegliere come comportarsi: il trend demografico e l’impatto antropico.
Innanzitutto la loro relazione, che è presto detta: qualsiasi siano le risorse energetiche dell’Umanità o lo stile di vita dei Popoli, l’impatto antropico sul pianeta di 1 miliardo di persone è molto diverso da quello di 10 miliardi. La relazione fra demografia e clima è portante. Non è pensabile parlare di Ambiente senza demografia.
Una rivoluzione in due tempi distanti.
Negli ultimi due secoli di Umanità sono due i mutamenti-madre, quelli più determinanti per il clima: la lenta evoluzione delle fonti energetiche e il vertiginoso aumento della popolazione mondiale, quest’ultima in particolare dal secondo dopoguerra ad oggi.
Dalla scoperta del fuoco abbiamo sfruttato la combustione per i più diversi usi; oggi nel secondo decennio del XXI secolo d.C., iniziamo a pensare ad un futuro diverso, senza combustione. Legno, grassi, olii, carbone, fino a quel 27 Agosto 1859, quando a Titusville (Pennsylvania), fu realizzato il primo pozzo petrolifero della Storia. Una storia che si sarebbe subito fatta strada con la Standard Oil di John D. Rockefeller.
L’era del petrolio e poi del gas; l’era nella quale l’Umanità ha vissuto sviluppi clamorosi, a tutto tondo. Ma è anche l’era nella quale l’Umanità è passata da 1 miliardo di persone dell’anno 1800 ai 7,888 miliardi di oggi; l’era nella quale parlare di impatto antropico non era un tema da affrontare.
Due cambiamenti (l’evoluzione delle fonti energetiche e l’aumento della popolazione mondiale) che hanno rivoluzionato la storia dell’Umanità in centocinquant’anni; una più determinante dell’altra. La combustione è parte integrante della storia dell’Umanità, ed è stata “sostenibile” fino a quando la popolazione mondiale non è decollata; ovvero fino a quando l’impatto antropico era considerabile come “trascurabile”.
Perché non va dimenticato che il Pianeta impatta naturalmente: emette quantità di gas climalteranti di dimensioni potenti, con i vulcani, con i mega-incendi, con i terremoti…
Ma ha in sé anche gli “anticorpi”, ovvero il Capitale Naturale, la biodiversità che consente di mitigare questi impatti e di catturare i gas climalteranti con le foreste, i suoli…
Poi c’è l’impatto dell’Umanità.
La convivenza armonica ed equilibrata di Uomo e Natura, ovvero quando l’Uomo è parte dell’equilibrio generale e la sua presenza non impoverisce l’ambiente, è superata.
Con “l’era del petrolio” e l’esplosione demografica l’impatto dell’Uomo è diventato dannoso per l’ambiente. Se prima le emissioni climalteranti erano parte di un ciclo vitale in un sistema-ambiente in equilibrio mutante, ricco di foreste e biodiversità, da tempo l’Uomo ha aggredito queste riserve, in modo predatorio, aumentando a dismisura le emissioni dannose, oltre quanto il pianeta poteva sopportare. Ecco quindi l’impoverimento delle risorse naturali e l’eccesso di emissioni, con il conseguente “effetto serra”, ovvero: i raggi solari che rimbalzano sulla Terra restano intrappolati nella nostra atmosfera a causa delle molecole di Anidride Carbonica e Metano che emettiamo. Come conseguenza la temperatura globale aumenta, e più emettiamo questi gas più aumenta la temperatura. A cascata tutto il resto, a partire dallo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari.
Oggi siamo al bivio:
il rapporto spazio/risorse/popolazione è molto cambiato, non è più sostenibile e il tempo per fare è ridotto. La vita, come la conosciamo, è possibile su questo Pianeta per una serie di condizioni; prima fra tutte è la proporzione ambiente/spazio – popolazione. In uno spazio immenso l’impatto antropico di una tribù è meno che minimo.
Per la fine di questo secolo si prevede che la popolazione mondiale tocchi i 10 miliardi di individui e il progressivo riscaldamento del pianeta non è un’opinione. Antonio Guterres, segretario generale ONU, al Forum economico mondiale di Davos: “Oggi siamo molto vicini al punto di svolta che renderà la catastrofe irreversibile. Stiamo flirtando con il disastro climatico. Siamo sull’orlo di cambiamenti irreversibili che minerebbero il futuro del pianeta, manca il senso di emergenza sul clima. Le conseguenze saranno devastanti: diverse parti del nostro pianeta saranno inabitabili e per molti questa è una condanna a morte”.
La COP28. Il cuore pulsante del documento finale delle due settimane a Dubai (5-13 dicembre 2023), il “Decision -/CMA.5 Outcome of the first global stocktake”, a proposito dell’impegno delle Nazioni per la decarbonizzazione, recita: “…in modo giusto, ordinato ed equo…”.
L’impegno però è risultato al di sotto delle aspettative, non solo per gli ambientalisti, perchè risulta più una dichiarazione di intenti piuttosto che un serio programma operativo; la gravità del momento lasciava pensare di poter aspirare a qualcosa in più.
In questa ultima COP a Dubai si registra per la prima volta, contrizione. Gli Stati ammettono di non aver onorato gli impegni, da Parigi in poi; ammettono anche che la situazione è peggiorata, perchè la decarbonizzazione è più lenta del previsto.
Gli Stati non riescono a tenere fede ai loro impegni, presi in sedi ufficiali ed internazionali: perchè?
Anche stavolta sono due le componenti-chiave: l’incremento demografico, India in primis, e la diffusione dei Valori del liberal-capitalismo nei Paesi ex socialcomunisti, come Russia e Cina.
La “ricerca della felicità” passa attraverso proprietà e consumo, meglio se intensivo. Significativo quanto disse il 45° Presidente del Paese più ricco e potente del mondo, D.J. Trump, il 23 Maggio 2005, quando la sua Trump University formally launched its education program. At the opening presentation, Trump said, “If I had a choice of making lots of money or imparting lots of knowledge, I think I’d be as happy to impart knowledge as to make money.”
Ciò è legato alla delusione per i risultati della COP di Dubai perchè, a partire dall’India (la cui popolazione è aumentata di 1 miliardo di individui in poco più di cinquanta anni, passando da 446 milioni del 1960 ai 1,408 del 2021), questi grandi Paesi si stanno misurando con la sfida della crescita vertiginosa della popolazione e dell’economia; quest’ultima sempre più interconnessa globalmente. Per certi versi differente il caso cinese, da tempo ormai “la fabbrica del mondo”, ma con conseguenze e posizioni simili, ovvero: la necessità di garantire sviluppo e ricchezza ai propri popoli. E quale sviluppo? Quello del modello capitalista, di produzione/profitto/consumo. Un modello che però fino ad oggi è stato lineare, basato sull’approccio predatorio verso il pianeta e le sue risorse naturali, e che ha smaltito rifiuti indifferenziatamente, senza trarne beneficio, sulle spalle dell’ambiente.
Quando si parla di “modello circolare” si intende proprio questo: ridurre al minimo il rifiuto, promuovere il riuso e il riciclo, creando la virtuosa circolarità fra risorse e loro uso.
Conclusioni.
Oggi sembra che la Felicità si identifichi con proprietà e consumo, in un contesto sociale dove l’esibizione è parte integrante dell’identità. “Consumo, quindi sono”. Non è un caso che la rivoluzione della consapevolezza sia iniziata alla fine degli anni ’80, con la formazione dell'”isola di plastica”, il Pacific Trash Vortex, una zona di concentrazione di plastiche usa e getta nel Pacifico, la cui estensione, che varia a seconda del metodo di misurazione, va da 700.000 km² fino a più di 10 milioni di km² (cioè da un’area più grande della Penisola Iberica a un’area più estesa della superficie degli Stati Uniti). E non è l’unica regione di accumulo: di “isole di plastica” ve ne sono in tutti gli oceani.
La risposta delle Nazioni non sembra essere puntuale ed adeguata alla sfida del presente; la direzione di marcia è quella di un innalzamento della temperatura globale media ben oltre il 1,5 gradi per la fine di questo secolo. Indispensabile perseverare nella diffusione della cultura ambientale e perseguire gli obbiettivi di decarbonizzazione.
Ma nel mentre: che sia più pragmatico programmare la seconda metà del secolo a 3 gradi Celsius in più, prevedendone gli sconvolgimenti con la Ricerca e l’innovazione, piuttosto che affidarsi alla saggezza delle Nazioni?